Dialetto e bambini? Un patrimonio che si sta perdendo

Domenica 29 Novembre 2015

Il Natale si avvicina. Le maestre hanno già scelto le poesie che i bambini reciteranno a tavola il giorno di Natale. Alcuni di loro le stanno già imparando. Croce e delizia delle mamme.

A mia madre toccò insegnarmi il napoletano per una delle recite di Natale. La maestra ci fece mettere in scena alcuni passi di Natale in casa Cupiello di Edoardo De Filippo, e la sottoscritta, pur essendo napoletana, non era esattamente portata per l’illustre dialetto partenopeo.

Tempo fa poteva essere un caso, ma oggi sono poche le case dove si parla in dialetto. Per una strana ragione tutta da indagare, da una ventina d’anni a questa parte, le persone che si esprimono in dialetto sono guardate con sospetto, se non con diffidenza, da chi il dialetto lo ha sentito parlare solo dai propri nonni, e forse neanche.

Magari lo capiamo, sicuramente lo apprezziamo a teatro o in tv. Provate a immaginare Vincenzo Salemme che recita in italiano; io l’ho visto a Teatro a Pavia, e vi assicuro che non è la stessa cosa che vederlo a Napoli.

Tutti noi conserviamo una cadenza, piacevole o meno, spia inequivocabile della nostra provenienza, ma parlare in dialetto è diventato un tabù. Lo releghiamo a qualche colorito intercalare, che in italiano avrebbe senz’altro un effetto più blando.

Correggiamo i nostri figli quando lo utilizzano in famiglia, e poi ci meravigliamo se ci guardano stupiti mentre canticchiamo con disinvoltura le canzoni napoletane più famose. I miei figli dopo 10 minuti di visione di “Non ci resta che piangere” hanno candidamente ammesso di non capire una parola di quanto diceva Massimo Troisi.

Eppure anche Apple se ne è fatta una ragione: da quando l’Unesco ha dichiarato lingue madri il siciliano e il napoletano, anch’essi figureranno nell’ultima versione del sistema operativo del Mac. Ovviamente non vuol dire che il pc sarà in grado di suggerire parole in dialetto, ma solo che le riconoscerà qualora vengano utilizzate.

Mi sembra anacronistico pensare che italiano e dialetto siano due realtà linguistiche in conflitto. Non posso fare a meno di pensare che perdendo le radici della nostra lingua, qualcosa la perdiamo anche noi. La nostra identità passa attraverso anche il nostro linguaggio.

C’è un certo ambito, quello familiare e affettivo, quello dell’ironia, della sdrammatizzazione, della saggezza popolare, che si preserva anche attraverso il nostro bagaglio culturale dialettale.

Così, se il posto d’onore tra i banchi di scuola deve andare giustamente alla grammatica, ai congiuntivi e ai periodi ipotetici dell’italiano, magari, occasionalmente, solo con il pretesto di una festività, proporre una poesia, una brano teatrale, una canzoncina in dialetto, può essere un’idea originale, che può aiutare le nuove generazioni alla consapevolezza della loro storia.

Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”. Pier Paolo Pasolini docet. 





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