Il cesareo: una ferita d'amore

Domenica 14 Aprile 2013

…eravamo mamme o soldati feriti? Non lo capivo.

Qualche sera fa ero sdraiata in un lettino di ospedale e nel cuore della notte ho aperto gli occhi in uno stato febbrile. Mi tiravano i punti di sutura, l’ago della flebo cominciava da darmi fastidio.

Nella notte camminavamo reggendoci la pancia ancora dolorante o cercando sul lettino la posizione più comoda per noi o la nostra panciona ed è stato lì che mi è sembrato di trovarmi in un ospedale militare. Solo che noi non portavamo la guerra ma la speranza.

Le nostre non erano ferite di odio ma di amore. Un taglio di qualche centimetro sulla pancia che quella notte bruciava come il fuoco e mi avrebbe ricordato sempre il giorno in cui io avevo dato la vita a Paolo e lui aveva migliorato la mia.

Una cicatrice piena d’amore, che prima del parto, con lo sguardo da esteta, guardavo con timore sulle altre donne e di cui solo ora capivo il significato. Era il simbolo dei “soldati d’amore”, che magari come me dopo ore di travaglio inutile quanto doloroso erano state portate in sala operatoria mentre il cuore martellava nelle orecchie e diceva: “Aiutatemi…aiutatelo!”.

Un’altra compagna di stanza si muoveva nella semi oscurità per andare in bagno, appoggiandosi al bastone del suo portaflebo. Passo incerto e piccoli lamenti. Abbiamo fatto “squadra”, noi in quella stanza e in quel corridoio. Proprio come soldati scampati a qualche pericolo. Ridevamo, per quanto i punti di sutura lo concedessero, di ogni stupidaggine pur di esorcizzare timori più grandi. "Riuscirò ad essere una buona madre?", "Perché non riesco ad allattarlo?", "Cosa significa che ha perso troppo peso?"

Io pensavo al mio bambino nel nido, dove lo portavano sempre dopo le visite alla mamma. Mi chiedevo se un giorno avrebbe mai capito la battaglia che avevamo vinto insieme quella notte, dopo che il suo battito era calato e dopo le mie urla di dolore. No, la cosa più “brutta” di questa battaglia è che lui non ricorderà nulla e, chissà, forse un giorno mi manderà a quel paese perché non gli darò il permesso di andare in qualche locale la notte, se lo ritengo “troppo piccolo per certe cose” o perché avrò da ridire su qualche suo amico o su un capo di abbigliamento che a lui piace tanto.

In quel momento lui non ricorderà nulla di tutto questo né io voglio mai rinfacciarglielo. Sarà il naturale procedere delle cose, come quando io piangevo e urlavo contro mia madre perché non voleva farmi uscire con “certa gente”. Certa gente che ora ha fatto una brutta fine, per altro.

Ma a me, che cercavo nella notte una posizione comoda per non sentire più il fastidio del catetere, consolava il fatto che il ricordo di quella dolce e dolorosa battaglia vinta insieme lo conserverò io per entrambi.

Quella vittoria ha avuto un sapore dolcissimo, quello del mio bambino. La vittoria più grande che abbia mai ottenuto sei tu, piccolo Paolo, e non importa quanto larga sarà la mia cicatrice, che ancora brucia un po' sotto il cerotto, combatterei ancora tutte quelle ore, lo farei di nuovo solo per incontrare di nuovo i tuoi occhi per la prima volta. Per poter annusare il tuo profumo di nuvola e baciare la tua pelle morbida.

Questa è una delle più importanti ma non è l'unica delle battaglie che una madre e un figlio devono vincere insieme. Servono la forza di un guerriero e quello di un'amazzone per farcela ma per quanto la vita mi abbia spesso resa disillusa, ora credo nella forza di un legame più forte di qualunque carro armato, più assordante di qualunque colpo di cannone, più stabile di qualunque alleanza militare. Tutto merito tuo, piccolo mio, questa è la prima di tante vittorie insieme, lo so.

Di Beatrice Moraldi

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